Alla fine del corridoio
di gomma blu si legge anche a distanza l'insegna luminosa e violetta BAR.
Sembra di fare un viaggio
nel tempo finendo dritti negli anni 50' la macchina del caffè rosso mattone e
acciaio, i bicchieri di vetro opaco stretti lunghi e zigrinati le pareti
gialle, i tavolini di plastica e una vaga atmosfera di dismissione che pesa
sulla testa, come un cappello di metallo, ognuno ha il suo personale cilindro.
Il sapore del caffè amaro
precipita in gola a piccoli sorsi, nello stomaco vuoto che si contrae in
singhiozzi di
gastrite, nausea che da
leggermente alla testa.
<Tutto bene?>
Il barista brizzolato con
il gilè di mussola mi fissa da un po' a quanto pare...
<Cosa? Dice a me?>
<Si dico a lei...anche
perché c'è solo lei...Le ho chiesto se si sente bene>?
<Ah...si certo, mi
sento bene, mi sono solo...distratta, credo, grazie>
<Di niente, però se
posso permettermi, non ha un bel colorito!>
<Dice? Forse sono solo
un po' stanca, ho fatto il turno di notte...>
<Certo, capisco> mi
guarda e accenna un sorriso. Mi rimane la sensazione che no, non abbia capito
affatto.
Esco dal bar lisciandomi
la gonna con i palmi delle mani, affronto di nuovo il corridoio e poi le scale.
Nonostante il tempo trascorso a percorrere e ripercorrere sempre lo stesso
tragitto, rischio di perdermi ogni volta stordita dal' odore dolciastro dei
disinfettanti. Non mi sono abituata, non mi sarei mai abituata.
All'inizio pensavo che
non avrei sopportato il dolore, il mio e quello degli altri, mi ero immaginata
un luogo denso di sofferenza, pieno di persone devastate e piene di rabbia,
invece silenzio. Il silenzio mi aveva preso a schiaffi in faccia fin dal primo
giorno, un silenzio bisbigliato sciolto in giornate scandite da un tempo
diverso, fatto di visite di controllo, giro letti, cambi di flebo, cateteri e
pannoloni, pasti a base di semolino, purè di patate, verdure e minestrine, in
sottofondo programmi televisivi che riecheggiando da una stanza all'altra,
riempiono le lunghe pause del sonno pomeridiano.
In questa dimensione
autonoma, assolutamente indipendente da quello che accade fuori, il tempo si
comporta in modo strano, dilatandosi in modo incredibile dando la sensazione
che sia sempre mattina, o correndo in modo che all'improvviso si faccia l’ora
di cena. Il tempo delle visite si frappone rumorosamente in questa routine
sempre uguale. Camminando per i corridoi, passando davanti alle stanze, quasi
tutte con le porte aperte a metà, mi rendo conto che della gran parte di quei
“pazienti” conosco bene solo le gambe e i piedi, che spuntavano alla vista.
Faccio fatica a mettere bene a fuoco le loro
facce, quello che mi riesce meglio è collegare i volti dei visitatori ai numeri
delle stanze, la madre grassa della 31, il figlio con gli occhiali a fondo di
bottiglia e la forfora sulla giacca della 43, la moglie con la faccia e
l'andatura da coniglio della 45 che viene i giorni pari e l'amante con i
capelli ossigenati e la ricrescita scura che viene nei giorni dispari.
Io invece, sono la
sorella che non ha mai saltato neanche un giorno di visita della stanza 26.
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